C’è un nome e un luogo che i Vaselli di Serre di Rapolano amano: il podere di Fonteluco.
Lo amano quelli che oggi sono oltre gli ottanta, perché ci sono nati e ci hanno vissuto la giovinezza, e i loro figli e nipoti perché ogni tanto ci vanno, lo guardano,ci passeggiano intorno e ascoltano con attenzione le vecchie storie, anche se raccontate per l’ennesima volta.
Io sto nel mezzo: ci sono nato, sono l’ultimo dei Mohicani, pardon, dei Vaselli nati a Fonteluco, ma sono venuto via presto, a tre anni, e quindi le mie storie sono racconti di racconti.
Dai registri parrocchiali delle Serre risulta che nel 1739 il podere di Fonteluco, proprietà dell’Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, era affidato ai Vaselli.
I registri definiscono i Vaselli con la formula “contadini agiati”, che vuol dire esattamente che pagavano le tasse, ed in più dicono che sapessero leggere e scrivere.
Il podere era molto vasto e fertile, perché trovandosi ai piedi della collina del paese, a ovest, aveva una sorgente impetuosa, che riempiva un vascone coperto da un tetto e con i lavatoi sporgenti sui lati; l’acqua usciva dal vascone per irrorare i campi e non si seccava mai. Per coltivare una tale estensione di terre occorrevano molte bracccia; i registri raccontano che a metà dell’800 erano più di sessanta i Vaselli del podere.
A me, che ho ben presente l’imponente cascinale, piace immaginare il frastuono di chissà quanti bambini, i sogni e i turbamenti di chissà quanti adolescenti, il lavoro acre di uomini e donne, i campi, le bestie, il latte, i giorni che finiscono solo quando tu stesso sei sfinito, le domeniche con i vestiti buoni e l’ascesa a piedi o su un carro verso la chiesa in cima al paese.
Si Toscana mia, terra di bestemmiatori che la domenica vanno a messa, di gente che davanti al padrone si toglie il cappello ma non piega il ginocchio, di donne che dal tempo degli etruschi stanno in pubblico alla pari degli uomini .
Nonno Raffaele, che tutti conoscono come Nonno Lello, fu l’ultimo capoccia di Fonteluco con suo fratello Santi, le rispettive mogli, Nonna Aspasia e Zia Armida, e i rispettivi figli, sei di Lello e, credo, cinque di Santi.
Lello era un uomo fortunato. Era partito diciottenne per la grande guerra del 15-18 ed era tornato, vivo e non ferito. Aveva una moglie bella e forte, era troppo vecchio per le guerre d’Etiopia e di Spagna, e tutti i suoi figli maschi erano troppo giovani per fare le seconda guerra mondiale: erano nati nel 28 (Varo), nel 30 (Azelio) e nel 45 (Franchino). Le prime due femmine, Leonilda nata nel 20 e Lea nel 25 fece in tempo a vederle sposate, l’ultima, Maria, aveva solo quindici anni quando il nonno morì.
Dopo la seconda guerra, tutti i giovani del paese volevano una vita diversa. Chi era tornato dopo anni di guerra e chi non era mai partito, tutti volevano andare alle cave di travertino, che chiedevano operai, o volevano fare mestieri comunque diversi da quello del contadino.
E’ per questo che Lello lasciò Fonteluco, dopo aver diviso con Santi i risparmi di famiglia ed aver fatto le parti ai figli e alle figlie più grandi, che nel podere avevano lavorato. Affittò una casetta in cima al paese, con Nonna Aspasia e i figli piccoli, Maria e Franchino, e con una piccola pensione, i risparmi e l’orto non gli mancava nulla.
Soprattutto non gli mancava il rispetto e l’amore di tutti, e avrebbe vissuto a lungo, dato che i Vaselli sono di tempra buona, se la voglia di fare di più per la famiglia non gli fosse costata la vita in una cava di tufo.
Santi invece prese un podere più piccolo, le Casi, lo tenne ancora per molti anni e i suoi figli dopo di lui. Non venne mai meno il legame tra i due fratelli e tra le loro mogli, ed era normale che si trovassero a trebbiare insieme il grano e fare tanti altri lavori del podere.
Parlo al plurale perché anch’io ci andavo, fino ai dieci anni, e anche se ero più che altro d’impiccio mi industriavo o mi illudevo di dare una mano.
Ecco, il cappello è terminato ed ora che ho dipinto il quadro posso raccontarvi qualche storia che ho vissuto veramente e qualcuna che mi hanno raccontato.
Il sasso del Nonno Lello
Arare i campi è fatica, fatica e sapienza antica, di uomini e di bestie.
Si alzavano molto prima dell’alba. Nonna Aspasia apriva la madia per preparare la colazione ed il pane e companatico da mangiare al campo, gli uomini mangiavano e poi scendevano nella stalla al piano terra, portavano fuori gli otto buoi, caricavano gli aratri sul carro e partivano per uno dei campi da arare.
Allo spuntare del sole quattro aratri erano in altrettante porzioni di campo, tirati da quattro coppie di buoi e quidati da quattro coppie di uomini. Nonno Lello si fermava in ogni postazione, raccoglieva un sasso e lo buttava lontano, dicendo che prima di sera ogni coppia doveva arrivare al suo sasso, e per se stesso cercava di fare il tiro più lungo.
Arare è difficile. L’aratro è fissato al giogo, in mezzo ai buoi, ma il vomere deve aprire il solco parallelamente alle zampe di destra del bue di destra; per questo l’aratro ha due manici, con i quali l’aratore contrasta la tendenza del vomere ad allontanarsi dal solco precedente.
Inoltre, il vomere tirato dai buoi tenderebbe ad uscire dalla terra, per questo l’aratore fa forza sui manici spingendoli in giù e tanto più il terreno è duro tanto più è fatica.L’aratore usa due comandi che i buoi capiscono: un aahh aahh per farli andate avanti, ed un suono lungo tra la “e” e la “u” per fermarli, un po’ come la pronuncia di acqua in francese.
Affinchè i buoi vadano dritto, senza calpestare i solchi già fatti, davanti a loro sta il compagno dell’aratore, di solito un ragazzo, che cammina all’indietro e tiene in mano le due cavezze, regolando il passo delle bestie. Arrivati alla fine della porzione di campo, il vomere viene estratto dal solco, le bestie vengono fatte girare ed è il ragazzo che riporta il treno al punto di partenza, tenendo i manici dell’aratro giusto perché scivoli sulla terra senza ribaltarsi.
Così l’aratore si riposava un po’, prima di ricominciare con un altro solco.
Quando arrivava mezzogiorno, prima davano alle bestie il fieno portato sul carro, poi mangiavano, pane e prosciutto, pane e rigatino, pane e formaggio, pane e salame, pane e qualunque altra cosa, perché è il pane che da forza. E bevevano vino pretto, perché di acqua se ne beveva già tanta durante il lavoro.
E poi via, ricominciavano di lena, perché prima di sera ognuno doveva raggiungere il suo sasso.
Ad un certo punto, Nonno Lello passava nelle porzioni di campo, e se qualcuno era lontano dal sasso lo prendeva e lo spostava indietro; così, veniva il momento in cui poteva fermare il lavoro e dire a tutti “basta, ce l’abbiamo fatta”.
Tutti sapevano che avrebbe fatto così, ma tutti ogni volta ci mettevano l’anima, per raggiungere il proprio sasso, e tutti sapevano che di meglio non si poteva fare.
Finisce così questa piccola storia, e ve l’ho raccontata come tante volte me l’hanno raccontata il mio babbo Varo e mio zio Azelio, due di quei ragazzi che stavano davanti ai buoi e non vedevano l’ora di diventare abbastanza grandi e forti da mettersi dietro, a tenere il vomere dentro la terra.
L’orto della Nonna Aspasia
Dopo aver lasciato Fonteluco, Nonna Aspasia aveva preso un orto. Confinava da un lato con la strada che portava dalla stazione dei treni al paese, ma aveva l’ingresso su una strada laterale, quella che passava accanto al podere delle Fornaci e proseguendo arrivava a Fonteluco.
L’orto era rettangolare, come un accampamento delle legioni, con il decumano che partiva dal cancello, situato ad est, incrociava il cardo a metà e proseguiva sino alla fine, a ovest. Era in leggera pendenza, e tutto ciò che vi era coltivato era esposto al sole.
Subito dopo il cancello d’ingresso c’erano le stie dei polli e le gabbie dei conigli, poi due campetti ai lati del decumano, uno coltivato a patate ed uno a carciofi ; subito dopo l’incrocio con il cardo, i campetti a destra e a sinistra ospitavano fagioli, fagiolini, pomodori, ceci, insalate, cavoli, finocchi, mentre il decumano proseguiva coperto da una pergola con uva da tavola.
Alla fine dell’orto, c’era un piccolo acquitrino circondato da canne e sul quale si protendeva un melo cotogno, vecchio e forte; l’acqua era coperta di limo, puzzava della decomposizione di materiale organico vegetale, ed infatti costituiva un ottimo fertilizzante per quelle pianticelle cui non basta l’acqua normale per crescere.
L’orto della Nonna Aspasia era una fonte eccitante di avventure. Imparare a zappare senza darsi la zappa sui piedi, imparare a seminare le patate, a legare i ramini dei pomodori in modo che il peso dei frutti non li spezzi, imparare a dar da mangiare ai conigli, a preparare il becchime per i polli…..E poi tornare a casa e raccontare: mamma, ho fatto questo… ho fatto quest’altro…mamma sono nati tre coniglioli… mamma ho attinto io l’acqua per la nonna con il coppo.
E qui mi beccavo una sberla educativa, perché era proibitissimo avvicinarsi all’acquitrino, di cui si ignorava la profondità, e che aveva le sponde franose e viscide.
Ma si sa, i bambini amano il pericolo. A me poi piacevano le mele cotogne, per cui gattonavo sul melo acchiappavo e mangiavo, sicuro che nessuno avrebbe fatto la spia, fino al giorno in cui feci una solenne indigestione e quindi la storia venne a galla, con mal di pancia, pianti, lamenti e giuramenti: non lo farò mai più mammina.
La nonna Aspasia sapeva fare tutto.
Intrecciava i graticci per far seccare i fichi, o far seccare l’uva per il vinsanto, sapeva sbaccinare i conigli tenendo la gabbia aperta senza che scappassero, sapeva castrare i polli per farli diventare capponi, sapeva fare le marmellate, le conserve, gli impacchi di semi di lino per far uscire i foruncoli, faceva le punture, dopo aver bollito la siringa e l’ago (a proposito, che male ! a quel tempo non esisteva l’ago Pic)…. una miniera, una miniera di cose, e quando non aveva nulla da fare si sedeva coi bambini intorno e sferruzzava o rammendava, raccontando storie misteriose di fantasmi che di notte si aggiravano dalle parti del fontone di Fonteluco: state lontani dal fontone cittini, perché è profondo e l’acqua è forte, sembra bello per via dei riflessi sul tetto che lo ricopre quando c’è il sole e quando le mamme stanno chine sui lavatoi e insaponano e sciacquano i panni, ma qualcuno ogni tanto c’è cascato dentro, e non si da pace….
O la storia della strega (una persona precisa di cui non ricordo il nome), che di notte spaventava i contadini che passavano accanto al Madonnino tra i due cipressi, trasformandosi in gatto nero. E una notte un uomo, un capoccia, andò là apposta e prese il gatto a bastonate, e così il giorno dopo tutti videro la strega camminare sbilenca e dolorante: quando sarete grandi e uscirete la sera, cittini, non tornate a casa a notte fonda, perché ci sono le streghe….
O la storia del tale, che si scoprì un neo su una gamba e questo neo cresceva cresceva, finchè decise di tagliarlo, e allora perse tanto sangue e in poco tempo si riempì di tanti altri nei e alla fine morì di un malaccio: smettetela cittini di stintignare i nei….
L’ultima volta che ho visto la nonna era una vecchina fragile, magrissima, che abitava dallo zio Azelio e tutti i giorni scendeva nel fondo di casa, per chiacchierare facendo qualcosa di utile. Eravamo andati in visita dopo tanti anni e verso sera la nonna mi disse con quella sua voce dolcemente toscana: Danilino, sono stanca, portami in camera. E la presi in braccio, su per le scale, felice come una pasqua perché mi diceva che Rita era veramente bella, e cara, e che si capiva che mi voleva bene…
I loci
Questa storiella non c’entra niente con gli antenati, ma ve la racconto perché i loci stavano nel fontone delle Fornaci, dirimpetto al cancello dell’orto della nonna.
Il fontone delle Fornaci, a differenza di quello di Fonteluco, era alimentato da una gentile sorgente sul fondo, non era molto profondo e dentro c’erano i loci.
Tutti sappiamo cosa sono le oche, ma come si chiama il maschio dell’oca ? Alle Serre per distinguerli si diceva “l’oca” e “il locio”, ed il neutro plurale era “loci”.
Era molto divertente guardare i loci che nuotavano, si azzuffavano un po’, si riparavano sulla riva, sotto alcuni salici piangenti. Guardare ma non toccare, perché i loci sono feroci, se li disturbi ci mettono niente ad attaccare, e col becco possono far molto male.
Ne sanno qualcosa i Galli che volevano prendere il Campidoglio di notte, e che stupidamente diedero noia proprio ai tremendissimi loci romani.
Non mi ha mai convinto Ciccio, il locio grassoccio e bonaccione di Walt Disney che fa il fattore da nonna Papera !
In realtà, sono convinto che i loci siano permalosi e attaccabrighe perché somigliano moltissimo ai cigni, bianchi e con il collo lungo, ma a differenza di loro non vengono mai coccolati dagli sguardi della gente né gli è mai stato dedicato un balletto.
Santi, Armida e i loro figli
Come vi ho detto, dopo Fonteluco presero il podere delle Casi, vicino a Fonteluco, con i loro figli.
Santi era un faticatore taciturno, dava poca confidenza ai bambini, ma al tempo della trebbiatura diventava ospitale con tutti.
Ricordo la grande trebbiatrice rossa, una macchina meravigliosa alimentata da un motore a nafta, che veniva trainata di podere in podere, e quando toccava al tuo dovevi avere molte braccia per buttarci dentro i fasci di spighe, spalare via la pula e la paglia che si accumulava dentro e intorno, mentre altri, sotto il nastro trasportatore, mettevano i sacchi vuoti e portavano via i sacchi pieni di grano.
In due giornate di lavoro ininterrotto, tutto il grano era stato trebbiato e stivato, e allora si faceva la grande festa nell’aia, cui partecipavano tutti, famigliari e contadini venuti ad aiutare dai poderi vicini.
Cibo all’infinito: crostini, uova lesse, antipasti di maiale, crostini, brodo di cappone, pastasciutta, carne alla griglia, pollo in umido, pollo fritto, pane di fatto in casa e vino pure, fiaschi su fiaschi. Ed alla fine musica e balli nell’aia, con l’orchestrina di famiglia dove tanti suonavano: fisarmonica, cornetta, clarino, ocarina….
Armida era come Aspasia, una massaia rurale, responsabile del cibo, della salute di tutti, della tenuta della casa e dei panni, fossero vestiti o corredo, comandante inflessibile nella sua sfera di competenza e paciera, quando tra figli si litiga.
Nella sua cucina campeggiava un focolare enorme, con le panche dentro per sedersi d’inverno, ed un camino talmente largo che guardando in su vedevi il cielo. Da lei ho fatto merende bellissime, in particolare ci preparava delle fette di pane poco abbrustolito, sopra olio e una strofinatina di aglio, o di pomodoro, sale e uva dolce. Qualche volta, pane e fette di rigatino, e non mancava un bicchierotto di vino, che per i bambini era il cosiddetto acquarello, un vino tirato fuori dal tino quando era uscito il vino pretto: bastava aggiungere acqua alle vinacce, aspettare qualche giorno ed ecco l’acquarello, che poteva essere di prima o di seconda o di terza aggiunta di acqua.
Quando ero piccolo, tra i loro figli, Drea era quello che preferivo, perché scherzava con me, mi buttava per aria e mi acchiappava al volo, una volta mi fece girare la grande falce rotante che tagliava il segato (spiegazione: d’inverno, ai buoi, oltre alla paglia tirata giù col forcone dai pagliai all’aperto, si attingeva ad una scorta di erba tenuta al chiuso e ancora verdastra. Quest’erba era compressa in fascine dal suo stesso peso, e bisognava segare le fascine con una grande sega rotante azionata a manovella, in modo da trasformarla in pagliuzze commestibili). Un’altra volta mi fece cavalcare Dora, la vecchia ciuca bianca, mentre la teneva per la cavezza, girando attorno all’aia.
Drea non stava mai fermo, e pur non conoscendo Dante, ne metteva in pratica il detto “lo perder tempo a chi più sa più spiace.”
Tanti anni dopo, tornando alle Serre con mia moglie e mia figlia andammo a fare una passeggiata a Fonteluco con la zia Maria. Vedemmo un vecchio seduto sotto un albero, accanto ad un’Ape; la zia mi disse: non lo riconosci ? E’ Drea. Mi avvicinai, e lo salutai credendo di fare il furbo: ciao Drea, che fai ?
Mi guardò, sorrise e rispose senza incertezze: ciao Danilo, sciupo il tempo !
Eh si, riposarsi = tempo sciupato, questa è la filosofia dei veri lavoratori.
Franchino e Sandro, compagni di gioco
Franchino (zio di soli 3 anni maggiore di me), è stato il primo Vaselli a studiare oltre le elementari, spinto dalla nonna Aspasia a farsi una vita diversa da quella dell’operaio o dell’artigiano.
Parlatore instancabile, fin da piccolo intontoliva tutti con le sue chiacchere e quando studiava non stava seduto, ma girava attorno al tavolo ripetendo a voce alta: rosa rosae rosa, rosam rosa rosa…Finite le medie, con la parlantina che aveva non poteva che fare il giornalista.
Cominciò da galoppino di redazione, poi scriveva le piccole cronache delle partite di calcio locale, per la sede di Siena de La Nazione e poi e poi….. Ha imparato bene l’inglese, il francese, è passato a testate più importanti, è stato mandato anni in Brasile, in Messico, in Cina, a Bruxelles, adesso è un pezzo grosso dell’Ansa a Roma.
Non posso fare a meno di riflettere sui cromosomi di famiglia, quando penso a mia figlia, che studiava camminando, parlatrice notevole, poliglotta e giramondo !
Sandro (cugino coetaneo di Franchino) fin da piccolo aveva le mani d’oro e la testa piena di invenzioni.
Da grande sarebbe diventato un maestro scalpellino, capace di fare a mano tavoli di travertino, catini, statue ornamentali che poi vengono parametrizzati, in modo che macchine apposite possano riprodurli industrialmente.
Ma i suoi capolavori da piccolo erano i carretti.
Per fare il carretto prendeva una tavola di legno, di un trenta centimetri per ottanta, spessa un paio di centimetri. Sotto, dietro, inchiodava un’asse che sporgeva di quattro o cinque centimetri per lato, con due cuscinetti alle estremità, con funzione di ruote posteriori.
Davanti, altra asse con cuscinetti molto più sporgente, ma non inchiodata, bensì incernierata con un bullone al centro della tavola, con funzione di ruote anteriori. In tal modo, con apposite cordicelle fissate vicino ai cuscinetti, era possibile sterzare il carretto.
Al centro del carretto faceva un foro, dove poteva inserire un paletto con funzioni di freno.
Alè ! Sedersi sul carretto in cima ad una discesa e venir giù a rotta di collo era un piacere, seguendo le curve della strada, frenando quando necessario, e di discese ce n’erano tante, in un paese in salita come le Serre.
Le zie e il forno di Fonteluco.
Ogni anno, anche dopo aver lasciato Fonteluco, qualche giorno prima di Pasqua la nonna Aspasia guidava il suo drappello di figlie e cognate al forno del podere, lo rimettevano in funzione e facevano i dolci per tutta la famiglia.
C’era la zia Leonilda, buona come il pane, sempre carezzevole e assolutamente cattolica.
C’era la zia Lea, occhi azzurri e risata argentina, che a guerra finita si era sposata con un soldato di passaggio, italiano, ed erano subito emigrati in Francia, nella zona mineraria di Metz, ma che tornava spesso e ci parlava in francese, con la erre arrotolata. Per lei l’armadio era l’armuar, io non ero caro ma scerì, il cappotto era il rob-mantò e da lei imparai la mia prima frase in francese: parlè fransè comm-une vasc-espagnoll.
C’era la zia Maria, di soli dieci anni maggiore di me, biondissima e con gli occhi azzurri, bella come un’attrice del cinema, di quelle che Pagliero teneva la fotografia nel suo negozio di barbiere.
C’era naturalmente mia madre, e Ines, mora con gli occhi azzurri e mamma di Sandro nonché fomentatrice del furto del cocomero di Azelio, e Maria l’altra, la moglie di Azelio.
Arrivavano al forno di mattina, cariche di pentole, tegami, casseruole, cestini, farina, uova, marmellate e altri ben di dio, accendevano il fuoco nel forno, tiravano su tavoli e panche, mettevano le tovaglie di plastica, disponevano gli strumenti culinari e cominciavano a preparare i dolci.
Crostate con la marmellata, di pesche, albicocche, ciliegie, fichi, zuppa inglese con savoiardi chicchi di caffè e gocce di cioccolata, il salame, sorta di pasta soffice con uno strato di cioccolata fusa e alkermes, avvolta su se stessa formando appunto una specie di salame, biscotti all’anice, amaretti, e i cavallucci, pagnottelle che diventavano come sassi, duravano un anno e si mangiavano merlate nel latte, come colazione nei giorni di festa, o nel the, durante le convalescenze da influenza.
I bambini stavano intorno, a ruzzare a pallone sul prato, o a nascondino nelle stanze del podere, ma non mancavano di collaborare: rompere e sbattere le uova, grattugiare i limoni, ungere le teglie e soprattutto pulire con le dita il fondo delle scodelle e leccarsele… alla francese.