Il Montino

Il podere del Montino era dall’altra parte del paese, a est, a metà della collina, quindi ancora nel fitto del bosco, ed i suoi campi erano a valle, duri da coltivare e non abbastanza grandi da mantenere una famiglia troppo larga; per questo i figli maschi dopo sposati lo lasciavano, e da ultimo se ne andava anche il capoccia, cedendo il posto ad un altro mezzadro.
Beppe Rossi era il mio nonno da parte di madre, e Brunetta sua moglie.
Era un uomo che prendeva fuoco facilmente, ci pensava poco prima di decidere e dopo aver deciso non tornava mai indietro.

Quando fu chiamato per la grande guerra, andò al distretto e disse che doveva tornare alla svelta a casa, perché lui aveva moglie. Gli dissero che il modo migliore era di arruolarsi come ardito.
Non capì cosa voleva dire, ma detto fatto, il tempo di indossare la divisa e saltar fuori da una trincea con la baionetta inastata, fu centrato dalle schegge di una granata. Si fece un paio di mesi di convalescenza e tornò al podere, ai suoi campi e a mettere al mondo figli.
Sei: Palmiero, Ilio, Marino, Rina, Dina e Derima, mia madre.
Poiché il podere era magro, nonno Beppe si arrangiava con il bosco e con la caccia; aveva un fucile a canna singola, che poteva sparare cartucce a pallini e a pallettoni, per i cinghiali. L’ultima volta lo usò per sparare a mio padre.
Il fatto è che il mio babbo aveva incontrato la non ancora diciassettenne Derima nel dancing del paese, il Cancello del Bosco Inglese, si era innamorato subito e qualche notte dopo era andato a farle una serenata con la sua fisarmonica, attraversando il bosco fino al Montino.
Ma nonno Beppe, probabilmente avvertito da una spiata dei fratelli di mamma circa questo corteggiatore, si affacciò a una finestra e buuum ! Con minacce urlate di sparire e rifarsi vivo, semmai, quando si fosse tolto il latte di bocca (traduzione: quando sarai un uomo perché avrai almeno fatto il servizio di leva…).
Le cose non andarono così, perché, si sa, i giovani trovano sempre il modo di fare quel che gli pare. E così un anno dopo si sposarono, a giugno, il babbo portò la sua sposa a Fonteluco, senza uno straccio di corredo e con i suoceri furiosi, partecipò alla trebbiatura del grano, fece la valigia e partì soldato: io nacqui tre mesi dopo, e mi vide alla sua prima licenza.
Ho già detto che Beppe era un uomo difficile. Prima che la sua diletta Derima si sposasse, aveva già litigato col primo figlio, reo di aver sposato una donna non gradita e di pensarla diversamente sulla conduzione del podere, e infatti Palmiero era andato a fare il bovaro sotto padrone; tra i due non ci fu mai riconciliazione e finchè il nonno visse restò il divieto di frequentarsi anche tra fratelli.
In qualche modo, mia madre riuscì, negli anni, a ricucire il rapporto con il nonno (e di nascosto anche con Palmiero…), e così ebbi almeno un nonno da frequentare, anche se di rado.
A me nonno Beppe piaceva, malgrado avesse l’abitudine di strofinarmi la faccia con la sua barba bianca e dura perché se la faceva solo di domenica, e malgrado non si togliesse mai il sigaro di bocca.
Aveva un coltello speciale con il quale faceva tutto, e che ormai era diventato tutto manico, a forza di affilare la lama, e da nonno Beppe ebbi in regalo il mio primo coltello, con le istruzioni per individuare nel bosco un alberello di nocciolo, segarne un ramo e intagliarlo, ricavandone un bastone degno di un vero boscaiolo.
Sul bordo dell’aia del Montino c’erano due o tre noci, li aveva piantati lui e facevano tante di quelle noci da poterle vendere. Una volta, arrivando in visita al tempo della raccolta, gli chiesi di insegnarmi a coglierle. Mi mise in mano una pertica e con quella andai sotto l’albero a battere tra le fronde, beccandomi una gragnuola di noci in testa.
Lo guardai negli occhi serio serio, e lui, pure serio, mi disse che l’uomo senza cervello va a battere le noci senza cappello. Mi ficcò in testa il suo cappellaccio marrone e mi disse di continuare.
Un’altra volta, a furia di moine lo convinsi a portarmi con sé a cercar funghi nel bosco. Lui li trovava, io niente, e così pensai che salendo su un albero avrei potuto scoprirli tra l’erba.
Macchè!. Deluso, scesi fino all’ultimo ramo del castagno, feci un paio di biciancole da trapezista e mi lasciai cadere, atterrando su una famigliola di ovuli e rovinandoli.
Nonno Beppe attaccò a ridere a crepapelle, si dava manate sulle ginocchia, quasi si strozzava col fumo del sigaro andato a traverso, e quel che è peggio per anni, ogni volta che mi vedeva, doveva raccontare a tutti di quella volta che Danilino, andato a cercar cucchi, li aveva trovati… coi piedi.
Uno dopo l’altro i figli di Beppe e Brunetta se ne andarono; Dina si sposò, Ilio pure e andò a far l’operaio alle cave, Marino si mise a fare il norcino, girava tra i poderi ad ammazzare e conciare i maiali, anche Rina si sposò, andò a vivere in paese e si mise ad aggiustare ossa, diventando talmente brava che da vecchia il primario dell’ospedale di Siena la chiamò, perchè insegnasse agli ortopedici ad aggiustare le fratture più complicate con impacchi d’erbe, chiara d’uovo e fasciature leggere, di sola tela, senza gesso.
Quando Beppe fu troppo solo, lasciò il Montino e andò con Brunetta a vivere in paese, in casa di Ilio e con la pensioncina di guerra. Un giorno, ormai più vicino ai novanta che agli ottanta, mangiò una piattata di minestrone, di quello delle nostre parti, usando come al solito le sfoglie di una cipolla al posto del cucchiaio. Bevve un bicchiere di vino, fumò un pezzetto di toscano e andò a fare un parparello.
Si addormentò e morì.
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