San Rocco

Non avevo intenzione di scrivere altri raccconti sul blog, ma qualcuno che mi ama mi ha chiesto di fissare qualche altro ricordo e lo faccio approfittando di questo ultimo scorcio di ferie.
Il titolo della pagina prende il nome dal posto in cui ho vissuto dai 3 ai 7 anni: San Rocco, quartierino periferico di Serre di Rapolano.
All'inizio della salita più ardua verso la cima della collina dove c'è il cuore del paese, si dirama verso destra una strada che taglia la collina orizzontalmente, in direzione delle cave di travertino.
Sul lato destro della strada ci sono case per un piccolo tratto, e quello è il quartiere di San Rocco, poi qualche strapiombo sui campi ed infine cominciano le cave.
Sul lato sinistro della strada si erge una muraglia piuttosto alta che frena la collina con un fitto bosco; più avanti la muraglia si abbassa, e ad un certo punto c'è la chiesetta di San Rocco, una delle milioni di chiesette nel mondo intitolate a questo irrequieto santo, che a quanto pare andò dappertutto, a piedi.
Le storie che seguono sono in ordine assolutamente non cronologico.

E' arrivato mio fratello
Avevo tre anni e mezzo e nessun elemento che mi permettesse di presagire questo arrivo. Ricordo che mia zia venne a prendermi per portarmi a casa sua e della nonna, evento assolutamente normale.
Ciò che non era normale e mi preoccupava era che mia madre le diede una borsa con dentro i miei vestiti, biancheria e scarpe.
Insomma, la faccenda aveva l'aria di un divorzio e nonostante le coccole infinite mi sentii molto meglio solo quando l'esilio finì e tornai a casa per scoprire che avevo un fratellino.
Qualche anno dopo diversi parenti mi raccontarono che alla prima occasione acchiappai una manina del neonato e cercai di mangiarla.
Non so se sia vero o falso, a me sembra falso perchè tutto sommato a mio fratello ho sempre vvoluto bene.

Il cucculo
Le case di San Rocco si affacciavano su una piazzetta latricata di travertino, ideale per giocare senza il rischio della strada. Come ho detto, dall'altro lato della strada si ergeva una muraglia che conteneva un fitto bosco.
A primavera arrivavano i cucculi, quei tenerissimi uccelli che sbucano fuori dagli orologi a muro, si fermavano un paio di mesi per deporre le uova e poi ripartivano verso nord.
Qualche sera di maggio, quando ormai era buio ma si poteva rimanere alzati con i grandi, capitava di portar fuori qualche sedia, noi e i vicini, e rimanere un po' a chiacchera.
C'era un vicino, un omone di cui non ricordo il nome che sapeva imitare alla perfezione il verso del cucculo: gonfiava il collo, già di per sè taurino, strabuzzava gli occhi, già di per sè protrusi, e lanciava il richiamo.
Di lì a poco il cucculo rispondeva, la conversazione continuava e il cucculo si avvicinava sempre di più.
Pregavo che venisse giù fino a noi, per vederlo da vicino, ma giunto al limitare del bosco l'animale si accorgeva che stava parlando con un umano, e se ne tornava nel folto. Peccato !
Oddio, qualche tempo dopo ci pensò un mio zio cacciatore a spiegarmi che il cucculo non è poi tanto simpatico, ma pigro e approfittatore.
Quando deve deporre le uova non si costruisce un nido, ma cerca quello di un passero distratto e zac, molla un uovo suo e fa rotolare giù un ovetto del passero; si vede che i passeri sanno contare, perchè non notando variazioni di numero i passeri continuano la cova, diventando genitori adottivi.
Quando poi la covata esce, il cucculo, che è più grosso, acchiappa i fratellastri quando i genitori sono fuori dal nido e li butta di sotto, in modo da mangiare di più.
Infine, quando impara a volare se la squaglia senza salutare e raggiunge i suoi, in tempo per migrare.
E' una storia tipica anche degli uomini: i contadini si fermano in un posto, fanno la casa, i figli e lavorano, poi arrivano i barbari o i mercenari pigliano quello che gli pare e quando ne hanno abbastanza vanno da un'altra parte, e i contadini ricominciano da capo.

La bottega del Quinci
Su un lato della piazzetta si affacciava la falegnameria del Quinci, luogo proibitissimo e affascinante per l'incredibile quantità di attrezzi: appesi ai muri, sopra i tavoli e per terra in mezzo alla segatura.
L'attrezzo più bello e pericoloso era la sega circolare, coi denti lustri e affilatissimi, posta alla fine di una tavola scorrevole.
Fissato il tronco alla tavola, il Quinci la spingeva verso la sega, fino a che questa cominciava a mordere il legno; regolava poi certi vitoni e ricominciava a spingere verso la sega, ricavando dal tronco una quantità di tavole tutte dritte e dello stesso spessore.
Era una magia veder calare la catasta dei tronchi e veder salire la catasta delle tavole, ma il divertimento migliore era quando il Quinci doveva costruire qualcosa con le tavole: una gabbia, un recinto, un cassone.
Si riempiva la bocca di chiodi, nel senso che li appendeva alle labbra per la capocchia, e in ordine di lunghezza, in modo che al bisogno e senza perdere tempo prendeva con la mano il chiodo giusto; lo puntava, dava un colpetto con il martello e poi bum, un colpo solo e il chiodo entrava fino in fondo, al massimo con un altro colpetto per far entare nel legno anche la capocchia.
Non è mica facile piantar chiodi, se non l'avete mai fatto provateci.
Se il chiodo non è puntato dritto e soprattutto se la testa del martello non arriva perfettamente parallela al chiodo o se non si colpisce esattamente con il centro della testa del martello, ecco che il chiodo si storge, o addirittura schizza via.
E' vero, si può anche piantare il chiodo tenendolo tra due dita per i primi colpettini e poi proseguire con altri colpetti via via più forti, ma vuoi mettere il gusto di farlo con un solo gran bum !
Comunque sia è da allora che ho la passione per il legno, e me la son goduta tutte le volte che, da uomo di casa, ho dovuto mettere mensole, fare scaffali per il ripostiglio e altri lavori.
Qualche anno fa mi sono comprato un set di sgorbie di lusso, e ho fatto qualche scultura e qualche lavoro di intaglio. Coltivo la speranza, da vecchio, di avere più tempo e di usarle più spesso, le mie sgorbie, e magari di andare a esporre i miei lavori in qualche fiera.
A chi dovesse leggere questo racconto e non fosse mai andato ad una di quelle manifestazioni dei nostri paesi di montagna dove si rende omaggio ai vecchi mestieri consiglio caldamente di andarci e di cercare quei banchetti dove professionisti e dilettanti della sgorbia espongono i loro lavori.
Avvicinatevi, prendete in mano una scultura o un intaglio qualunque e domandare quanto tempo c'è voluto per farlo. Scommetto un bicchiere di quello buono che l'artigiano vi risponderà: uh... un sessanta ore...

La Topolino
Mio padre la posteggiava all'inizio della piazzetta di San Rocco, vicino alla strada e a fianco delle cataste del Quinci, con il muso rivolto verso il fondo, dov'era casa nostra.
Un pomeriggio d'estate, quando dicevano che fuori c'era il solleone e che bisognava stare in casa, me ne stavo invece fuori e giocavo con un cavallino di plastica (marroncino) e relativo carretto (bianco), mentre mio padre era dentro a riposarsi.
Mi resi conto che la piazzetta era in discesa, che la Topolino non era chiusa a chiave, che per quanto piccolino arrivavo col piede a schiacciare la frizione e mettere la marcia in folle. E infine, che mollando piano piano il freno a mano la macchina si muoveva. Pochi centimetri e poi stop, ritirando il freno a mano.
Avrebbe mai notato qualcuno che la macchina era stata spostata di pochi centimetri ???
Il problema è che ci presi gusto, e dai e dai a furia di centimetri arrivai a far battere, dolcemente, il paraurti contro il muro di casa, in fondo alla piazza.
Quando mio padre uscì non disse nulla e andò a lavorare. Ma da allora in poi chiuse sempre le sue macchine.

Nonno Lello
Mia madre faceva il bucato con la pila. La pila somigliava ad una enorme caffettiera, con la colonna centrale da cui saliva il ranno mano a mano che bolliva.
Andiamo con ordine: si metteva la pila su due alari, si mettevano nella pila lenzuola, asciugamani, lisciva cenere e acqua, poi il coperchio, si accendeva il fuoco sotto gli alari e si aspettava.
Bolli bolli, quando il bucato era finito e il fuoco spento, si toglievano i panni per sciacquarli e stenderli ad asciugare, e infine si doveva vuotare il liquido della pila, afferrandola per i due manici , togliendola dagli alari e inclinandola.
Una persona sola poteva fare tutto, tranne che togliere la pila dagli alari e inclinarla, per questa operazione bisognava essere in due.
Un giorno ero nella piazzetta con mia madre, e c'era la pila sugli alari. Apparì in nonno Lello, sempre sorridente, scambiò qualche parola con mia madre e l'aiutò a spostare e svuotare la pila.
Poi si accosciò sui talloni, mi fece ganascino, mi spettinò, si rialzò in piedi, ci salutò, si rimise il piccone in spalla e riprese la strada verso la cava di tufo.
Non so se accadde quel giorno o qualche tempo dopo.
Mio padre arrivò correndo ed entrò in casa a prendere le chiavi della Topolino. Era disperato e diceva che era successa una disgrazia alla cava di tufo, poi uscì e mia madre mi ordinò di andare in macchina con lui.
Non ricordo dove si andava nè a fare che.
Ricordo che il sedile di fintapelle della Topolino scottava di sole e mi si appiccicava alle gambe, che mio padre guidava, piangeva e ogni tanto batteva un pugno sul volante, e che non capivo per quale motivo il nonno Lello non ci sarebbe stato più.
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